Yasunao Tone – Noise Media Language
Press Reviews
“Ciò che colpisce del lavoro di Yasunao Tone è il suo essere al tempo stesso aperto ed ermetico… Non presenta nulla perché è presente. Non è fatto per dirti nulla. Non è qualcosa. E’, e basta.” Con queste parole Achim Wollscheid introduce il lavoro di Yasunao Tone, artista e performer giapponese ma soprattutto agitatore di idee, suoni e formati, in apertura del dettagliato volume della Errant Bodies Press, Yasunao Tone. Noise Media Language (www.errantbodies.org). Finalmente una pubblicazione che tenta di ripercorre e documentare l’intero percorso creativo di Tone: un percorso non facile da riassumere, che parte dagli esordi in Giappone con i gruppi Ongaku e Hi Red Center, passa attraverso l’esperienza Fluxus, fino ad approdare al sodalizio con Merce Cunningham e alle numerose sperimentazioni con la tecnologia digitale e non.
Conosciuto dalle nuove generazioni di musicisti e ascoltatori per essere stato il primo ad ipotizzare, e a mettere in atto, un uso “performativo” del supporto digitale – una pratica risalente alla metà degli anni Ottanta, quando iniziò ad intervenire con pezzi di nastro adesivo sulla superficie dei compact disc in modo da creare suoni imprevisti e coltri di noise (si ascolti Solo For Wounded CD su Tzadik) - Tone fonda tale azione su un corpus di lavori e di sperimentazioni assai più articolato, che prende le mosse da quel fermento culturale e creativo che fu il Giappone degli anni Sessanta e, in seconda battuta, la scena newyorkese degli anni Settanta. In Giappone Yasunao, terminati gli studi di letteratura e musicologia, fu tra i fondatori del gruppo Ongaku, dedito a happening che mettevano in discussione forme e formati convenzionali spostando l’attenzione su quella che si potrebbe definire improvvisazione totale. Unitosi a Fluxus nel 1962, Tone continuò a esplorare le numerose intersezioni tra performance, avanguardia, musica di confine e sperimentazioni con la tecnologia. I suoi “esperimenti con l’agitazione”, come li definisce lo studioso William Marotti nel testo in catalogo, andavano da azioni in pieno spirito Fluxus come Automatism No. 1 (vero e proprio tentativo di trascrizione in suono dell’automatismo psichico teorizzato da Breton, in cui strumenti musicali e oggetti comuni erano usati come fonti sonore catturate su nastro magnetico), ai primi tentativi di connettere testo poetico e suono, all’interno del progetto Music Group e al fianco di artisti come Takeisha Kosugi, con l’intenzione di “liberare” il suono dagli schemi oltrepassando ogni strutturalismo e andando dritti alla materia degli oggetti che lo generano. E per Tone spesso la materia è il testo scritto, con tutte le stratificazioni di storia e di storie al suo interno. E’ in questo tracciato di ricerca che Tone s’incammina fino a raggiungere quella che può essere considerata la summa del suo lavoro: il progetto dedicato al Man’ yoshu, la prima grande raccolta di poesie giapponesi risalente al VII e VIII secolo nella storia del Sol Levante, famosa tanto per la valenza poetica dei suoi componimenti quanto per la complessità ortografica con cui ognuno di essi fu trascritto: trattandosi di poemi trasmessi oralmente, la soluzione fu quella di prendere in prestito caratteri ortografici dal Cinese, sconfinando nel territorio di una lingua assai diversa dal Giapponese per via di strutture interne radicalmente dissimili. Nel corpus di opere dedicate al Man’ yoshu, Tone ha portato avanti una ricerca sui segni, sulle loro derivazioni e radici a diversi livelli, sui simboli e sui gesti ad essi legati, che costituisce l’humus antichissimo e suggestivo da cui prende le mosse per una serie di installazioni e performance. Da questa sterminata collezione di segni parte, per digitalizzarli e traslarli in suoni: scoppi di noise e graffi violenti, come per concentrare ed esaurire secoli e secoli di tradizione invece di narrarli. Scrive Federico Marulanda, ricercatore presso la Columbia University: “Le controparti di Tone alle poesie del Man’ yoshu bruciano i ponti, e così facendo completano la dissipazione dell’informazione veicolata in modo sub-referenziale dai caratteri con cui le poesie furono scritte originariamente”. Chiunque abbia mai assistito a una performance di Tone legata al progetto appena descritto, o abbia ascoltato il cd Musica Iconologos (Lovely Music, 1993, ispirato a un procedimento simile seppur unicamente basato sulla lingua cinese), ricorderà la forza al tempo stesso antica e abrasiva, consistente e coesa, dei suoni emessi in brevissimi lassi di tempo, come ad azzerare un’intera civiltà sull’immediatezza dell’impatto uditivo e sonoro, sulla presenza totalizzante di un suono mai censurato o smussato, che arriva addosso investendo con un impatto crudo e un’urgenza che pervade.
Nell’aprire il suo saggio in catalogo, la studiosa statunitense Dasha Dekleva cita un’intervista di Tone: “Nel giocare con i limiti della musica, ottengo qualcosa come un film, o un dipinto, o una danza. Sin dall’inizio ho avuto un approccio trasversale ai media.” Continua descrivendo il giapponese come “figura versatile la cui opera sfugge ogni linearità e, a volte, ogni facile visibilità.” Esamina performance quali Catch Water Music a Tokyo nel 1965 in cui, da una balconata posta sopra il palco, Tone lanciava secchi d’acqua attorno ai quali i performer improvvisavano i propri movimenti. Soprattutto la Dekleva colloca l’intera opera di Tone attorno a tre nuclei tematici: la performance di una partitura musicale (dove torna a indagare il rapporto fra suono e testo), di una circostanza (l’esperienza con Fluxus), di un fenomeno (gli anni con Merce Cunningham). Ne viene fuori un ritratto che rende il lavoro del giapponese in gran dettaglio, inquadrandolo peraltro in un contesto non soltanto artistico ma anche storico. Quello che rimane fuori dal saggio della Dekleva è il personaggio Tone, o meglio il non-personaggio, quelle sfumature di ombre tutte in sottrazione, quella grazia sfuggente e al tempo stesso quello humour tagliente che contraddistingue l’artista nipponico: aspetti fotografati in gran dettaglio nell’intervista di Hans Ulrich Obrist, degno compimento di una monografia indispensabile. Qui Tone ripercorre le influenze Dada e Surrealiste, i suoi primi anni di azioni, il rapporto con la musica e il suono e soprattutto affronta alcuni dei grandi temi della musica del Novecento quali indeterminatezza e rumore, da lui esplorati sempre con grande precisione di riferimenti e secondo un rigoroso percorso di ricerca che passa attraverso la letteratura e la teoria del linguaggio. Quasi sembra nascondersi dietro le proprie parole, e così facendo avvalora la tesi di Wollscheid rispetto all’urgenza di Tone di creare una presenza inerente al proprio lavoro e sottraendo la propria persona da esso. “Intrappolati in una rete di preoccupazioni, considerazioni e compromessi, ci troviamo ad ascoltare brani che intendono diventare proprio questa azione, questo tempo e questo spazio. Si focalizzano, ma non insistono… Dopo una sua conferenza, una volta gli chiesi ‘Yasunao, a cosa sei buono?’ e lui: ‘Forse sono un buon suono.’